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NEWS - INTERVISTA A MISTER MAURO ANTONIOLI:«IL CALCIO È CAMBIATO TANTO: BISOGNA CREARE DEI GIOCATORI PENSANTI»
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INTERVISTA A MISTER MAURO ANTONIOLI:«IL CALCIO È CAMBIATO TANTO: BISOGNA CREARE DEI GIOCATORI PENSANTI»

Intervista di Cristiano Cavallaro in collaborazione con IlTerzoTempo.net
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calcioreggiano.comGenerica - 23/07/2025

Reduce da una splendida salvezza centrata con la Vigor Senigallia, Mauro Antonioli, un allenatore dal curriculum decisamente niente male, è adesso in cerca di una squadra. In una lunga chiacchierata, pertanto, abbiamo ripercorso le tappe più importanti della sua carriera, sia da giocatore - in particolar modo quello storico gol contro la Juventus di Del Piero - che da tecnico. Ci ha raccontato i suoi due splendidi anni con il Ravenna, che lo hanno visto conquistare una promozione in Serie C, oltre ad una salvezza che per poco non si tramutava in accesso ai play-off. Ma non è finita qua, poiché abbiamo parlato anche del suo capitolo a Reggio Emilia, della straordinaria annata - purtroppo stoppata sul più bello dal Covid - sulla panchina della Fermana, dei tanti giovani lanciati a Forlì e non solo. 

Allacciamoci alla sua carriera da allenatore cominciando con quella da giocatore: ha avuto compagni di squadra come Maran, al Chievo, e Simone Inzaghi, al Lumezzane. Oltretutto, è stato allenato da Malesani, sempre in Veneto, e da Serse Cosmi, ad Arezzo. Chi è stato a formarla maggiormente come mister?

«Mi fai una domanda non semplice. Sicuramente ho imparato tanto da dei compagni di squadra fantastici, ma ancor di più dagli allenatori. Quelli che hai nominato sono due tecnici diversi sotto molti aspetti, ma che mi hanno lasciato veramente qualcosa di importante. Malesani aveva un’eccellente preparazione tattica: seguiva la metodologia di Sacchi, quindi, da quel punto di vista lì, era molto avanti. Non a caso vincemmo il campionato con il Chievo, con una grandissima squadra, composta da bravissimi giocatori, che hanno successivamente fatto carriera. Nella formazione che poi ottenne pure la premiazione in Serie A c’era tanto di suo. Ad Arezzo, invece, ho avuto Serse Cosmi e mi sono trovato veramente bene. Un altro mister preparato, diverso caratterialmente: molto più focoso e bravo nel far tirare fuori ai giocatori tutto quello che avevano dentro. Davvero un condottiero che riusciva ad entrare nella testa del gruppo, facendolo rendere al massimo. Due personalità diverse come ti ho detto, ma che mi hanno istruito parecchio. Anche ai ragazzi, quando li alleno, dico sempre che da tutti c’è qualcosa da imparare, sia in positivo che in negativo, perché poi tante volte le esperienze meno felici sono quelle che ti formano di più, che ti portano a non commettere gli stessi errori. Malesani e Serse Cosmi sono due allenatori da cui ho imparato molto». 

Nel 1994 , ai tempi del Chievo, ha segnato in Coppa Italia contro la Juventus di Del Piero. Cosa può dirci di quel momento?

«Sicuramente uno dei ricordi più belli della mia carriera da calciatore. Quella era la partita di ritorno, che è passata come meno importante, ma, all’andata, al “Delle Alpi”, pareggiammo 0-0 e io colpii un palo di testa, non di certo una mia specialità. Quando ci siamo sfidati al Bentegodi, c’era lo stadio pieno: la gente era ovviamente entusiasta di vedere campioni come Del Piero, Baggio, Ravanelli, Vialli… una squadra fortissima. Andammo in svantaggio, poi feci il gol del pareggio e, presi dall’entusiasmo, per poco non ci portammo anche in vantaggio. La partita, purtroppo, terminò con una sconfitta per 1-3, ma fu una delle soddisfazioni più belle della mia esperienza da giocatore». 

Una delle sue prime esperienze da mister è stata quella con il Bellaria: vi siete salvati nonostante una penalizzazione di 7 punti, vincendo ben 14 partite. Che stagione è stata?

«Era il primo anno in cui allenavo i grandi. Si trattava di una squadra composta da molti ragazzi promettenti. Nelle stagioni precedenti avevo guidato diverse formazioni della categoria “Berretti”: mi era capitato a Santarcangelo, ma anche proprio a Bellaria. In prima squadra mi ero quindi portato tanti dei talenti che erano cresciuti in quelle stagioni - 8-9 under - e facemmo un grandissimo campionato. La penalizzazione ci fu assegnata più avanti: eravamo praticamente in zona play-off, ma, a tre partite dalla fine, ci fu inflitta questa punizione, per aver schierato un giocatore straniero che non risultava tesserato. Abbiamo dovuto lottare per il mantenimento della categoria pertanto. Ci siamo riusciti, realizzando uno splendido cammino e dando spazio a tanti atleti di prospettiva. Quello è uno degli anni che ricordo più volentieri». 

Dopo un trascorso positivo al Ribelle, è approdato al Ravenna. Come ha plasmato quella squadra, arrivata a vincere la Serie D? Quali erano gli aspetti più importanti del suo stile di gioco?

«Andai lì con tanto entusiasmo: Ravenna è una piazza importante e io venivo da due realtà molto piccole - Bellaria era un po’ più conosciuta, mentre Ribelle era una società nuova e non aveva ancora una grande tradizione -. Quella chiamata, quindi, per me fu molto importante. L’obiettivo era quello di cercare di arrivare più in alto in classifica rispetto alla stagione precedente, usufruendo di un budget moderato. I Giallorossi, infatti, avevano ottenuto la salvezza verso il tramonto del campionato e a me fu chiesto di provare ad agganciare il quinto posto, dunque l’accesso ai play-off. Siamo partiti con tanto entusiasmo e tanta voglia, con un organico che comprendeva giocatori sia più giovani che più esperti che non avevano mai fatto categorie superiori. Si era creata una sinergia incredibile tra tutti i componenti della squadra, che esprimeva un bel calcio. Avevo dei buoni interpreti, che hanno dimostrato di poter stare tranquillamente anche in categorie più prestigiose. Se non hai i giocatori, sicuramente è difficile ottenere i risultati. Nel girone di ritorno realizzammo una cavalcata incredibile, con tantissimi successi. Vincemmo il campionato ad una giornata dal termine; eravamo davanti a squadre che avevano investito tanto, come l’Imolese e il Porto Tolle. Con tanta dedizione da parte dei ragazzi siamo riusciti a compiere qualcosa di fantastico, alzando un trofeo insperato. Anche quella fu dunque un’enorme soddisfazione». 

L’anno dopo, tra l’altro, avete conquistato la salvezza in Serie C. Ha lanciato dei giocatori niente male: un portiere come Jack Venturi - uno degli ospiti in occasione del “compleanno” della nostra pagina - e un centravanti come Maistrello, ma soprattutto Maleh.  

“Jack è un ragazzo che ricordo molto volentieri - così come tutti gli altri ovviamente -: quando allenai a Reggio, lo consigliai io, infatti mi sentii soddisfatto quando la Reggiana, dopo il mio addio, ingaggiò diversi giocatori che desideravo già io l’anno prima. Degli atleti che si sono rivelati importanti, visto cos’ha fatto quella squadra dopo l’arrivo di Alvini. Tornando al Ravenna, la società era un po’ spaventata, perché non era pronta: non si aspettava la promozione in Serie C, che ovviamente ti porta a spendere tanti soldi. Ad ogni modo, seppur la disponibilità economica fosse ridotta, grazie a diversi prestiti e altri giocatori importanti, siamo riusciti a fare un grandissimo percorso, sfiorando addirittura i play-off - un sogno che abbiamo visto evaporare all’ultima giornata, contro il Santarcangelo -. Maistrello non era ancora un calciatore affermato, ma diventò la nostra punta di diamante. Anche Maleh era un ragazzo promettente, che fu prelevato dal Cesena a gennaio. Quel campionato andò avanti seguendo la falsariga del precedente, quindi con lo stesso staff e con una base formata dagli stessi ragazzi che avevano vinto la Serie D. Due anni davvero indimenticabili». 

In quel campionato, tra l’altro, ha ottenuto la salvezza dopo aver cambiato modulo, passando dal 4-3-1-2 al 3-5-2. Da cosa è derivata questa scelta? 

«Quando abbiamo vinto il campionato, mi ero già documentato, guardando le altre partite e seguendo anche gli altri allenatori. Avevo visto che cominciava ad andare molto questo 3-5-2, soprattutto per le squadre che non avevano l’obiettivo di vincere. E’ un modulo che ti permette di difendere con cinque giocatori, coprendo bene il campo, e, allo stesso tempo, di attaccare bene, perché spingi con i due esterni e, se i tre difensori sono bravi a fare girare la palla, riesci ad imporre il tuo gioco - l’Inter ne è stato un esempio importante negli ultimi anni -. Dopo la conquista del titolo, disputammo il Poule Scudetto - perdemmo in finale con il Monza -: mi ricordo che già nelle ultime due partite di quel torneo provai la difesa a tre. Pensavo che, avendo una squadra un po’ meno qualitativa, aumentando la solidità difensiva saremmo andati meglio. L’anno dopo, in C, sono ripartito con il modulo con cui avevamo vinto, ovvero il 4-3-1-2, perché ritenevo fosse la cosa migliore. Giocavamo bene, ma gli avversari che affrontavamo erano ovviamente più bravi con la sfera tra i piedi rispetto alle formazioni di D. Vedevo che concedevamo tanto nella fase difensiva, perché, insistendo con i terzini, in quanto ti devono dare loro l’ampiezza quando utilizzi quello schieramento, rimanevamo con solamente due difensori dietro e magari il play più avanti, che faceva un po’ da schermo. Eravamo in difficoltà e, dopo aver perso qualche partita di troppo - ricordo anche una sconfitta per 1-5 con la Triestina -, decisi di cambiare modulo. Abbiamo sfruttato quelle che erano le nostre caratteristiche, mantenendo i medesimi concetti - questi non devono mai cambiare, a differenza del sistema di gioco, che può variare -. Io sono dell’idea che non ci sia uno schieramento preferito, ma che la capacità di un allenatore sia quella di far rendere al meglio gli atleti che ha a disposizione. Nelle categorie che ho affrontato io negli ultimi anni è difficile costruire una squadra a propria immagine e somiglianza, o comunque decidere il mercato, perché i problemi economici affliggono tutti. Devi avere delle idee, ma, se vedi che non permettono ai tuoi ragazzi di dare il massimo, devi cambiare qualcosa. Questa, per me, è la qualità di un mister, come ti dicevo». 

Ha guidato la Reggiana reduce dal fallimento in Serie D, portandola al salto di categoria, seppur tramite ripescaggio. Che gioia è stata? Tra l’altro, ha allenato giocatori come Spanò e Rozzio: il primo ha lasciato il calcio per dedicarsi agli studi - una storia davvero unica -, mentre il secondo ha appena firmato e si appresta a vivere la decima stagione di fila in granata. Chi l’ha colpita di più a livello umano?

«È stato un anno incredibile, perché intorno al periodo di Ferragosto non si era ancora seminato niente: ai primi allenamenti eravamo una banda di ragazzini. Dopo, la società nuova è stata brava a tenere due giocatori importanti come Rozzio e Spanò, che sono stati determinanti nella costruzione del gruppo. Piano piano è stata strutturata una squadra adatta - come avevo chiesto io - a giocare con il 4-3-1-2; magari non è stata composta nella maniera perfetta, anche perché il nostro mercato era iniziato dopo, ma credo che abbiamo fatto un ottimo campionato nonostante le difficoltà. Abbiamo lottato fino alla fine, in quanto abbiamo perso la finale play-off con il Modena, ma a pochissime partite dal termine ci giocavamo ancora il 1° posto, quindi credo che sia stato fatto un grande lavoro da parte di tutti: in primis, da parte della società, che deve essere la base, poi da parte dello staff e dei ragazzi che si sono calati in una realtà veramente importante, perché a Reggio, anche in Serie D, le pressioni sono parecchie. Non è semplice: ci sono giustamente tante aspettative da parte della gente e quindi tutte le domeniche non è facile giocare con la preoccupazione di dover ottenere il risultato a tutti i costi. Si tratta, dunque, di un impegno mentale, oltre che fisico, importante. Quello è un anno che ricordo con piacere ed è stata una bella soddisfazione essere l’artefice della ripartenza della nuova società, che, anche se allora si chiamava Reggio Audace, si sapeva che l’anno dopo sarebbe tornata ad essere la Reggiana».

L’anno dopo, in Serie C, ha portato la Fermana ad ottenere una salvezza importante, contenendo squadre come Modena, Cesena e Vicenza. Che cosa si prova ad allenare in C e cosa si ricorda volentieri di questo capitolo?

«L’esperienza con la Fermana ha per me un grande rammarico, proprio come quella nella Città del Tricolore. Per quanto riguarda i Granata, parlo della sconfitta nella finale play-off con il Modena - nominata già prima -, perché, secondo me, se avessimo vinto quella partita sarei stato confermato l’anno dopo alla guida della squadra, in quanto essere sicuri del ripescaggio mi avrebbe permesso di restare. La stagione seguente, invece, la Fermana mi ha chiamato ad ottobre e abbiamo fatto qualcosa di incredibile fino a marzo, quando scoppiò, purtroppo, il Covid. Eravamo al decimo posto - zona che ci avrebbe consentito di disputare i preliminari per la promozione - e avevamo ottenuto risultati incredibili. Era quindi una squadra tecnicamente molto dotata - probabilmente la più forte che abbia mai allenato -, ma siamo stati interrotti sul più bello, quando stavamo volando, perché nelle ultime partite avevamo battuto il Sudtirol e il Padova - all’Euganeo tra l’altro -, inoltre avevamo ottenuto un punto contro il Piacenza, che poi vinse il campionato. Quell’anno, tra l’altro, avevamo fermato la Reggiana, oltre al Cesena, con cui pareggiammo 3-3 addirittura. Dei risultati veramente importanti. Era un gruppo molto tecnico; giocavamo col 3-4-1-2: c’era Bertagnoli, un giovane molto bravo che poi esplose in Serie B come trequartista, Neglia, che successivamente si trasferì in granata, Bacio Terracino, Maistrello, Cognigni… Avevo dei calciatori molto importanti e di qualità: i risultati furono la conseguenza».

Anche a Forlì ha schierato tantissimi giovani: quali, secondo lei, potrebbero esplodere? Cosa pensa di come si è evoluta la Serie D, con regole che valorizzano sempre di più i ragazzi alle prime esperienze tra i grandi? 

«A Forlì abbiamo trascorso un anno veramente importante: in classifica eravamo arrivati terzi, poi fallì la Pistoiese e ci tolsero sei punti. Lo stesso accadde al Ravenna. Infatti, nonostante sul campo fossero arrivati primi i romagnoli, lo scivolone in graduatoria a due giornate dalla fine, causato dalla decisione della lega, ha fatto sollevare il trofeo al Carpi. Fu sicuramente un’annata complicata anche da quel punto di vista e, purtroppo, falsata dalle cose che accadono oggigiorno nel calcio. Avevo una squadra giovane, che, però, l’anno dopo fu quasi completamente rinnovata. Quello dell’ultimo campionato era un organico totalmente diverso da quello che avevo io, del quale sono rimasti soltanto pochi giocatori: Drudi, il difensore, Gaiola, il centrocampista, e Visani, un giovane che poi è andato al Carpi. Quindi furono confermati pochi ragazzi perché la Serie D ti costringe, purtroppo o per fortuna, a far giocare i giovani e di conseguenza l’estate dopo bisogna cambiare metà squadra, poiché alcuni diventano più grandi e non sono più considerati “under”, dunque il regolamento non obbliga a schierarli. Sinceramente, io non sono tanto d’accordo con questa regola e credo che i ragazzi debbano giocare se lo meritano. Questo l’ho visto nel corso delle stagioni, anche quando giocavo: se il giovane è bravo viene fuori; costringere le società a dare spazio ad atleti ancora “acerbi” crea soltanto l'illusione che questi possano fare carriera, cosa che, invece, non è semplice. Altri calciatori, poi, non sono in grado di reggere determinate pressioni e quindi dovrebbero essere inseriti gradualmente, ma vanno schierati per forza e penso che questo abbia fatto calare il livello. Io sono d’accordo sull'idea di concedere delle chance agli atleti alle prime esperienze, soprattutto nel calcio moderno che è molto fisico, ma questi la maglia da titolare se la devono guadagnare. Con questa norma, loro sanno già che giocano e non si sentono in dovere di sudare per conquistarsi il posto settimana dopo settimana, per cui gli viene tolto qualcosa sotto tutti i punti di vista».

È reduce da un’altra salvezza importante, ottenuta con la Vigor Senigallia. Come si è sentito in quel momento e che incarico sta cercando adesso che è senza squadra?

«La Vigor Senigallia è stata una salvezza per me. All’inizio della stagione scorsa ero tornato a Ravenna con tanto entusiasmo dopo aver fatto bene a Forlì. Avevo ricevuto qualche chiamata da squadre abbastanza importanti, tuttavia avevo optato per il ritorno in Romagna, per via del bel ricordo della vittoria del campionato, la fiducia che nutrivo ed una società nuova e importante come lo è adesso con Ariedo Braida come direttore generale. C’erano tutti gli elementi per fare bene. Purtroppo, è andata male e per me, a livello mentale: è stato duro digerire la decisione dell’esonero, maturata dopo appena sei partite. Secondo me, c'era ancora la possibilità di fare bene: in quel momento non eravamo in linea con gli obiettivi della società, però c’era tutto il tempo per recuperare. A gennaio ero veramente in crisi e quando mi ha chiamato la Vigor Senigallia sono andato subito, per la prima volta, senza staff, perché qualcuno era rimasto a Ravenna ed eravamo un po’ tutti divisi, dunque sono andato da solo. È stata un’esperienza bella, con un gruppo che non conoscevo per niente; secondo me abbiamo fatto un bel lavoro, di cui è stato apprezzato sia il lato umano che quello calcistico e che mi ha dato un po’ di serenità nel finale di stagione. Quest’anno, ad essere sincero, anche a causa della mia ultima esperienza travagliata a Ravenna, ho ricevuto poche chiamate: soltanto un paio di chiacchierate con qualche squadra, ma non è andata bene. Come dicono tutti gli allenatori, adesso aspetto una società seria che mi dia un po’ di tranquillità e mi permetta di lavorare bene, che è quello che cerchiamo adesso noi tecnici: siamo sempre legati a pochi risultati negativi che ci mettono in discussione. Il calcio, purtroppo o per fortuna, è diventato così. Dico questo perché, essendo ora alla ricerca di un gruppo da guidare, ci saranno probabilmente dei cambi e spero di subentrare sulla panchina di una società organizzata, come mi è capitato a Senigallia, dove ho incontrato persone serie, brave e con grandi valori umani, aspetti non facili da trovare al giorno d’oggi in questo sport».

Visto che ha evitato tante retrocessioni ma ha anche alzato trofei, una curiosità: è più difficile disputare un campionato alla ricerca della promozione o provare in ogni modo a salvarsi? 

«È chiaro che chiunque voglia allenare nella categoria più alta possibile, però sinceramente a volte è meglio farlo ad un livello inferiore con l’obiettivo di giocare per vincere piuttosto che stare in un campionato più prestigioso ma difendersi in tutte le partite con le unghie e con i denti per non prendere gol. Credo che sia più bello sia per gli allenatori sia per i ragazzi essere una squadra che impone il proprio gioco piuttosto che scendere sempre in campo con la pressione di salvarsi. Ho notato che anche i tifosi apprezzano di più un livello inferiore con una squadra che vince anziché una formazione che lotta per salvarsi all’ultima partita in una categoria più ambiziosa. Alla gente piace andare allo stadio per divertirsi: si vive di emozioni e vedere la propria squadra che esibisce un bel calcio e porta a casa i tre punti è più entusiasmante che assistere ad un undici che deve combattere per ottenere anche solo un pareggio e salvarsi. Questo è poco ma sicuro».

Ha sempre allenato a livelli alti come la Serie D e la C: come si fa a migliorare ulteriormente dei giocatori già formati? Come struttura gli allenamenti?

«Oggigiorno si lavora molto sull’uno contro uno, perché il calcio è diventato molto individuale e molte squadre giocano in questa maniera. Quindi, si fanno allenamenti molto specifici, ad esempio delle partitelle in cui si marca a uomo e lo si segue per tutto il campo. Questa è una cosa che fa molto l’Atalanta, guardando i livelli più alti. È chiaro che bisogna saper fare ciò in fase offensiva ma quando difendi bisogna anche essere capaci di coprire la porta e chiudere gli spazi, perché se pedini l’uomo dappertutto rischi di creare dei varchi. Quindi c’è tanto da fare in maniera specifica e a volte non c’è neanche il tempo di esercitare tutto. Il martedì lo strutturiamo soprattutto con lavori fisici e di recupero per chi ha giocato la partita, con possessi palla, riscaldamenti tecnici e concetti tattici da dare ai calciatori già durante il riscaldamento. Il mercoledì si migliora sulla forza e sull’intensità facendo anche delle partitelle improntate sul duello individuale. Il giovedì si comincia a preparare la gara della domenica facendo prima un lavoro tattico e poi la partita undici contro undici come se fosse quella del fine settimana. Il venerdì si prosegue con la tattica e si diminuiscono i carichi di lavoro, curando anche le due fasi in base all’avversario che si affronta. Infine, il sabato facciamo la rifinitura con calci piazzati, rapidità, lavoro mentale… Il calcio negli anni si è innovato tanto: è diventata molto importante la strategia e vanno sempre più di moda le sessioni video, ma è difficile anche preparare i match, perché ogni formazione cambia continuamente. È come se in una partita ci fossero più partite: si comincia in una maniera e quando muta il risultato variano anche i modi di giocare delle squadre, quindi bisogna sapersi adattare. Io credo che il compito principale dell’allenatore sia quello di dare il maggior numero possibile di nozioni ai ragazzi, che devono essere preparati a tutte le situazioni, dunque bisogna renderli pensanti, capaci di comprendere le varie situazioni, per esempio come ti affronta l’avversario: se ti porta dentro o fuori… Dunque bisogna fornire tante soluzioni tattiche: questo è il lavoro principale, a cui bisogna abbinare tanti lavori fisici, che, come dicevo prima, sono molto importanti, per cui ci vuole il preparatore atletico e parecchia intensità negli allenamenti. È un lavoro complicato e importante, ma è anche bello da fare perché dà tante soddisfazioni. Questo è ciò che dobbiamo realizzare noi mister di adesso e anche i calciatori devono essere più preparati di prima: una volta c’erano pochi difensori che giocavano palla a terra; oggi sono i primi registi nella costruzione del gioco. Si tratta, quindi, di un lavoro più impegnativo, ma anche più gratificante».

Ringraziamo vivamente Mauro Antonioli per l’immensa disponibilità e la stupenda opportunità concessaci.

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