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- DALLA FASCIA DA CAPITANO AL RUOLO DI MISTER:«SONO CRESCIUTO DI FIANCO AL CAMPO DA CALCIO» - INTERVISTA A SIMONE SILIGARDI (STORIE DI PROVINCIA #7)
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DALLA FASCIA DA CAPITANO AL RUOLO DI MISTER:«SONO CRESCIUTO DI FIANCO AL CAMPO DA CALCIO» - INTERVISTA A SIMONE SILIGARDI (STORIE DI PROVINCIA #7)
Intervista di Cristiano Cavallaro al mister del Daino Gavassa.
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Generica - 17/10/2025
Abbiamo avuto il grande piacere di scambiare due chiacchiere con Simone Siligardi, tecnico del Daino Gavassa. In una lunga intervista ci ha raccontato le tappe più importanti della sua carriera, sia da calciatore che da allenatore. Abbiamo parlato degli anni trascorsi a Modena e a Sassuolo – dove ha giocato con Mandelli, che ha guidato proprio i Canarini in Serie B nella passata stagione –, del suo legame con il paese di Bagnolo e, naturalmente, del campionato appena iniziato. Lo ringraziamo sentitamente per la disponibilità e per l’opportunità che ci ha concesso.
Buongiorno mister, parliamo di questo inizio di campionato. Siete partiti con 4 punti in 5 partite, tuttavia si sono già intraviste le vostre qualità nella vittoria per 1-4 sul Boca Barco. State ancora trovando la quadra?
«Non ti nascondo che non siamo partiti come ci immaginavamo: speravamo di avere un avvio migliore. È anche vero, tuttavia, che abbiamo cambiato metà squadra; probabilmente siamo ancora alla ricerca dell’equilibrio giusto e della continuità. Sicuramente ci meritiamo i punti che abbiamo ottenuto, perché non siamo riusciti a fare di meglio. Dobbiamo lavorare sodo, restare più uniti e giocare da squadra, per tentare di inanellare una serie di risultati utili. Secondo me, le potenzialità per fare un buon campionato ci sono. È chiaro che queste sono categorie complesse, perché, se mancano mentalità e atteggiamento - a questi livelli più importanti di tecnica e tattica -, si rischia di finire nei guai. Spero che faremo tesoro di quanto abbiamo costruito in quest’anno e mezzo, per uscire da questa situazione complicata al più presto. Siamo solo all’inizio e i giocatori li abbiamo: sta a noi cambiare passo sotto l’aspetto mentale alla svelta».
Tornando indietro nel tempo, in carriera ha giocato in Serie C2 e in Serie C1 e ha avuto come compagno Mandelli, che nella scorsa stagione ha guidato il Modena in Serie B. Si aspettava potesse intraprendere il ruolo di allenatore?
«Sì. Quando ero in squadra con lui, a Modena, era uno dei più “anziani”, ma aveva sempre un occhio di riguardo verso i giovani, a cui dispensava parole e consigli. Ha fatto sentire tutti a proprio agio e, per me, è stato un compagno meraviglioso, anche perché militava in quel campionato a fine carriera, ma era un giocatore di tutt’altro livello. Scendere in campo con lui era bellissimo: imparavi solo guardandolo. Non mi stupisce, pertanto, che abbia intrapreso questa strada e che voglia continuare».
In carriera ha vestito anche la maglia del Sassuolo, che oggi è in Serie A. Visto che ai tempi era in C2, che effetto le fa vedere i Neroverdi nella massima categoria?
«Ho giocato nel Sassuolo in un cruciale momento di transizione: si stava passando dalla Kerakoll alla Mapei, società che ancora oggi dirige il club neroverde. C’era aria di grande cambiamento e ho vissuto un bellissimo periodo anche lì, nonostante fossi molto giovane. Col senno di poi, se avessi avuto un po’ più di pazienza e avessi rispettato il contratto che avevo, sarei potuto restare più a lungo per apprendere di più. A quell’età, però, la voglia di giocare è tanta e, quando non ti capita, valuti la possibilità di cambiare. Vedere il Sassuolo in Serie A - anni fa arrivò persino in Europa League - è qualcosa di incredibile, perché si tratta pur sempre di un paese piccolo in provincia di Modena. Fa capire quanto l'organizzazione e la tenacia possano fare la differenza, al di là dei numeri e degli abitanti».
È stato, tra l’altro, capitano della Bagnolese: cosa si prova a portare la fascia da capitano a livelli così alti?
«Sono stato capitano della Bagnolese per molto tempo; il primo ad affidarmi la fascia è stato Galantini, che adesso allena il Fabbrico. Lo fece quando avevo 22 anni: è stata un’emozione particolare. Poi, con il passare del tempo, ci si abitua, ma non bisogna mai dimenticare cosa si rappresenta, ovvero un intero paese e una società. Ho sempre cercato di farlo con fierezza, voglia e positività, e penso di essermi guadagnato la fiducia dei miei compagni di squadra, nonostante fossi un ragazzo alle prime esperienze. In rosa c’erano atleti più grandi e formati di me, ma ricordo che accettarono di buon grado. È stato un capitolo molto costruttivo per me: certe volte non conta la categoria, ma l’esempio che vuoi essere in campo. Ho sempre indossato la fascia con grande orgoglio».
Ha deciso di intraprendere la strada di allenatore molto presto, anziché continuare a giocare. Come mai?
«Ho subito un grave infortunio alle vertebre cervicali quando avevo 27 anni. Ho continuato a giocare per altre due o tre stagioni, ma mi sono reso conto che non riuscivo più a esprimermi come prima. Ho deciso, pertanto, di mettermi a studiare per continuare a vivere questo mondo. L’opportunità me l’ha data il Daino Gavassa nel 2012, a 31 o 32 anni, in Seconda Categoria. Ho accumulato circa 200 panchine in Eccellenza, molte anche in Promozione, poi ho fatto la Prima Categoria a Casalgrande e ora sono di nuovo a Gavassa. Ho militato in tutti i livelli, dalla Seconda all’Eccellenza, e per me è sempre divertente e stimolante trovare gruppi, società e situazioni diverse. A volte è andata bene, altre no, ma è sempre bello».
Ha mai avuto la possibilità di lavorare per qualche società professionistica, magari anche con qualche formazione giovanile?
«Mi è capitato una volta, nella stagione 2018-2019: la Reggiana mi propose di guidare la Berretti, ma ci fu il famoso fallimento di Mike Piazza. Avevo già un accordo in mano e mi sono trovato senza squadra. Mi sarebbe piaciuto molto cogliere quell’opportunità. Non ho più avuto altre proposte da società professionistiche, ma devo dire che ho sempre preferito allenare gli adulti, perché mi piace il contatto diretto con i giocatori, la discussione, il confronto. Se capitasse in futuro, certamente non scarterei una possibilità del genere, perché sarebbe un’avventura nuova e molto costruttiva».
Qual è stato il momento più bello della sua carriera da mister?
«È un momento che molti mi ricordano ancora, risalente al mio primo anno in Eccellenza, a Bagnolo, nel 2014 se non erro. Venivamo da cinque sconfitte consecutive, quindi, come puoi immaginare, l’aria era pesantissima: sapevo che, se avessi perso un’altra partita, sarei stato esonerato. A fine primo tempo, con il Colorno, stavamo perdendo 1-0. Avevo esaurito tutte le soluzioni mentali per poter aiutare la squadra. Sono entrato in spogliatoio per ultimo e ho distrutto qualsiasi cosa mi sia capitata tra le mani. Avevo la sensazione che la squadra provasse paura, pertanto ho cercato una reazione di nervi. Nella ripresa, i ragazzi hanno tirato fuori una grinta pazzesca e abbiamo vinto 2-1. Mi sono venuti tutti ad abbracciare: l’emozione era fortissima. Ancora oggi capita che alcuni dei giocatori di quella rosa mi dicano: “Mister, si ricorda di quando a Colorno ha distrutto tutto?”».
Quanto la aiuta nel suo mestiere il fatto di aver giocato ad alti livelli? Un compagno o un mister che le ha insegnato tanto durante la sua carriera?
«Aver giocato aiuta molto a comprendere determinate dinamiche, atmosfere - io ho avuto modo di vivere tante categorie, persino la Serie D in Basilicata, con la maglia del Melfi - e sensazioni. Per il resto, allenare è tutta un’altra cosa: devi pensare ad aspetti completamente differenti, perciò sono due strade parallele e una mi ha agevolato a percorrere l’altra. Se devo dirti i nomi di un paio di compagni di squadra che ho avuto modo di conoscere sia da giocatore che dopo, ti cito Daniele Fornaciari e Davide Fraccaro. Il primo era un giovane della Bagnolese, quando io ero il suo capitano, e poi l’ho ritrovato - sempre a Bagnolo - da allenatore. Mi ha dato una grossa mano all’inizio della mia carriera: ero un mister giovane e a volte avevo a che fare con dei coetanei, cosa non semplice. Lui è stato un tramite meraviglioso, che negli spogliatoi mi ha aiutato tantissimo. Quanto a Davide Fraccaro, ho giocato con lui a Sassuolo, poi è nata un’amicizia che dura tuttora. Ho collaborato con lui sia a Bagnolo che a Casalgrande e mi sono sempre trovato benissimo: era un calciatore di altissimo livello, ma prima ancora una splendida persona. Quando riesci a mantenere questa sintonia nel calcio è bello, perché gli amici che poi ti porti dietro nella vita non sono tanti. Lui è uno di quelli e mi fa piacere menzionarlo».
Il Daino ha uno dei centri sportivi più all’avanguardia della provincia e un settore giovanile molto competitivo. Cosa rappresenta per lei questa società?
«Sono nato e cresciuto di fianco al campo da calcio e qui abito tuttora. Insieme a qualche dirigente, ho visto tutta la nostra impiantistica crescere da zero. Avere una struttura come quella di cui disponiamo oggi, con tre campi - uno per le partite, uno per gli allenamenti e uno “di emergenza” in caso di maltempo - e una palestra - che quando ero bambino bambino non c’era - è motivo di grande orgoglio, perché abbiamo costruito tutto pezzo dopo pezzo ed è un’area di nostra proprietà. Non è comunale e non siamo in affitto. Notare che oggi tanti giocatori passano di qua e non vogliono andare via, soprattutto per i dirigenti, trasmette una grande soddisfazione. Io la vivo come se fosse la Juventus, squadra di cui sono tifoso. Ci tengo a fare bene perché so cosa serve per mantenere queste strutture e i sacrifici necessari. Sono sicuro, inoltre, che un paese piccolo sia molto affezionato alla propria squadra: domenica, con la Povigliese, c’erano 200 spettatori - mai successo in cinquant’anni di storia -. Vedere certi scenari, per noi, è un po’ come la nostra Champions League. Il nostro obiettivo è la salvezza, perché mantenere la Prima Categoria sarebbe fantastico. Soffrire non sarà un problema - fa parte della nostra cultura e della nostra storia -; l’importante è che chiunque indossi questa maglia sia consapevole di dover rappresentare qualcosa. Sono sicuro che, se riusciamo a trasmettere questo valore, in un modo o nell’altro, faremo un buon campionato».
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